Antropologia
Una scienza e più antropologie per osservare il tutto della condizione umana, confrontare somiglianze e differenze e imparare a chiamare ogni diversità: ricchezza
Fra le scienze umane, l’antropologia è quella che, letteralmente, elabora il discorso sull’uomo (dal greco ànthropos: uomo e lògos: parola, discorso), sull’umanità in tutti i suoi aspetti: caratteristiche fisiche degli esseri umani, economia, usi e costumi, sistemi di parentela, leggi e meccanismi di potere, arte…per citarne alcuni. Data la vastità del suo campo di indagine, l’antropologia si è articolata in diverse prospettive specializzate secondo gli ambiti di ricerca e anche secondo le tradizioni di studio proprie dei vari Paesi. Questo non ha impedito gli scambi, le sovrapposizioni, le influenze reciproche, per cui oggi l’antropologia si presenta come una scienza estremamente variegata. Senza entrare in merito alla ricca riflessione interna all’antropologia che, nel corso della sua storia, ha incessantemente ridefinito i significati dei nomi dati alle varie discipline e sottodiscipline, riferiamo soltanto la prospettiva qui assunta, quella dell’antropologia “senza etichette” con la quale, attualmente, si ricomprendono le discipline etnoantropologiche che indagano gli aspetti socio-culturali dell’esperienza umana, di cui qualche esempio è stato dato sopra (eccetto le caratteristiche fisiche, uno degli aspetti studiati dall’antropologia fisica).
Entriamo allora nel vivo del discorso, interpellando uno dei padri fondatori dell’antropologia, Edward Burnett Tylor: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». L’inglese Taylor fu il primo a usare il termine “antropologia” e, in apertura della sua opera principale, Cultura primitiva (1871), pose la definizione di cultura riportata sopra, considerata la prima e più importante formulazione sistematica di una “cosa” (la cultura) che, tuttavia, ancora resiste a rigide e definitive formulazioni.
Ciò che l’antropologia può mettere in luce – i significati meno evidenti di ciò che è percepito come familiare e le ragioni della diversità – è risorsa preziosa pure per chi non fa il “mestiere dell’antropologo” (Marc Augé): il mestiere di vivere è praticato da tutti e saper cogliere le opportunità di una convivenza armoniosa fra le molte maniere di esistere, è premessa necessaria alla piena espressione di ciascuno.
Isoliamo, dalla definizione, un termine che ci introduce ad una nozione decisiva: «acquisita», cioè appresa, imparata e NON innata. La cultura, come “insieme complesso” di tutti gli elementi che la compongono, non è un fattore naturale, scritto dentro l’uomo al pari del suo patrimonio genetico (e con ciò universale e immodificabile); la cultura è qualcosa di costruito fuori dell’uomo, che dal di fuori lo raggiunge e che l’uomo, dalla nascita e per tutto il corso della vita, impara (dunque la cultura è particolare, cioè specifica di un contesto, e suscettibile di trasformazione). Impara fin da bambino cosa si debba intendere per “padre”, “madre”, “famiglia”; quali giochi siano ammessi (e praticabili) dai maschi e quali dalle femmine – e più avanti la questione diventerà: quali ruoli (anche professionali) siano stabiliti adatti alle donne e quali agli uomini; quali emozioni e sentimenti siano accettabili (anche a sé stesso), quali si possano esprimere in pubblico e come; impara schemi di comportamento adeguati ai vari contesti in cui si muove; a riconoscere e gestire relazioni di potere. Impara molto altro, in modo anche inconsapevole, attraverso i meccanismi dell’imitazione e dell’inferenza, per il fatto stesso di trovarsi dentro una collettività che ha deciso per sé di funzionare in una certa maniera. Ciò che impara (è importante ribadirlo) è il modo in cui quel determinato gruppo umano, in un certo tempo e luogo, ha organizzato la propria vita comunitaria; non un dato naturale che prescriva per tutti, ovunque e sempre, la validità di quel modus.
Proprio per il suo carattere locale, di appartenenza ad una società particolare, non esiste popolo che non sia portatore di cultura; ai tempi in cui Tylor affermava questo, la cosa parve insostenibile perché, non solo le persone comuni, ma anche gli studiosi erano assolutamente convinti del contrario, dell’esistenza di “selvaggi senza cultura”. E oggi? Se a livello accademico quell’affermazione è condivisa senza incertezze, noi persone comuni, quando siamo concretamente davanti al “diverso”, davvero lo guardiamo persuasi che le manifestazioni, spesso a noi incomprensibili, di tale diversità siano cultura? La risposta che ciascuno dà a questa domanda non ha a che fare con complicate trattazioni da rivista scientifica, ma con la concretezza di quello che diciamo e di quello che facciamo ogni volta che qualcuno di molto altro da noi irrompe sulla scena delle nostre consuetudini. E questo accade spesso, perché ogni cultura non se ne sta immobile, circoscritta ai confini della società che l’ha prodotta; al contrario, essa ha la facoltà di oltrepassarli, i confini, e influenzare le culture con le quali si incontra. Multiculturalismo, contaminazioni, meticciamento: queste sono, oggi, le parole di uno scambio che c’è sempre stato ma che, al presente, si realizza per molteplici vie, in modo massiccio e su scala sempre più dilatata.
Non esiste popolo che non sia portatore di cultura
Emerge a questo punto un’altra dimensione fondamentale, quella della diversità (o alterità, «altro» da sé, diverso). L’alterità non è tale perché, a livello biologico, una persona o un popolo abbiano in sé chissà quali caratteristiche che li rendano diversi; la diversità, nella prospettiva antropologica, prende consistenza solo all’interno della relazione: è solo quando QUALCUNO, che percepisco diverso, E IO entriamo in relazione che i reciproci sguardi costituiscono e vedono la diversità. E, nella relazione, non solo io vedo l’altro ma, attraverso quel che vedo di lui, vedo ME. L’altro mi rivela a me stesso. Osservo come “l’altro” vive il rapporto con l’ambiente naturale, o come educa ogni nuova generazione, o come intende la morte, o cosa definisce «arte», e vedo come IO mi pongo di fronte a queste stesse cose.
Nella nostra società contemporanea, la grande sfida del confronto fra culture diverse non ha più lo scenario esclusivo delle terre lontane con i loro popoli nativi; né la presenza di comunità straniere nei Paesi ospiti (come conseguenza delle migrazioni) sono l’unica occasione perché le persone comuni si trovino coinvolte in quel confronto. Infatti, portatori di culture altre, intese nel senso di particolari, sono anche gruppi umani già “di casa” su un territorio, come le bande giovanili di una metropoli o le comunità contadine di certe aree geografiche.