The Families of Man: scatti d’autore sull’umano, la società e i suoi cambiamenti

Eventi | 0 commenti

La mostra che abbiamo visitato, The Families of Man, si è svolta dal 29 Maggio al 10 Ottobre di questo anno presso il Museo Archeologico Regionale di Aosta. Il catalogo, curato come la mostra stessa da Elio Grazioli e Walter Guadagnini e al quale, anche, ci riferiamo nel formulare le considerazioni che seguono, è acquistabile nelle librerie e on line.

L’esposizione, e in questo risiede principalmente l’interesse che ci porta ad “ospitarla” nel nostro sito, nel momento in cui testimonia uno spaccato della storia recente della fotografia italiana, esprime anche una riflessione sugli eventi, sulle grandi questioni contemporanee che coincidono con altrettanti temi frequentati dalle scienze umane, quali l’immigrazione, l’ecologia, la dimensione religiosa, il gender; le immagini che si succedono nell’esposizione rispecchiano l’indagine sulla società e i suoi cambiamenti, sull’oggi così come è stato preparato dagli accadimenti di ieri, sul concetto stesso di realtà. Essere passati, ad esempio, da un momento storico (gli anni Cinquanta del secolo scorso) in cui il cambiamento più rilevante, in ambito fotografico, poteva essere quello dal bianco e nero al colore, ad un altro momento storico (quello attuale, con la data fondante del 1989, anno in cui veniva depositato il brevetto del World Wide Web), in cui “fotografie” senza più il loro tradizionale supporto cartaceo circolano a milioni per la rete e i profili del “fruitore” e del “produttore” di immagini si sovrappongono, confondendosi anche nell’anonimato; ecco, questo processo non è qualcosa che rimane interno alla fotografia italiana, come discorso specialistico estraneo a quel contesto che ha fornito gli oggetti stessi della raffigurazione; questo processo e quel contesto sono, invece, strettamente intrecciati: senza la rivoluzione digitale, il fenomeno della globalizzazione e l’elemento culturale del primato dell’immagine, per il quale ci siamo costituiti “società dello spettacolo”, non sarebbe possibile una «nuova epoca della fotografia»; ma tale novità, pensiamo, non va ridotta al senso di un andare a traino, come necessitati all’adeguamento dall’inesorabile procedere degli avvenimenti; nel momento in cui gli artisti fotografi si lasciano interpellare e rispondono con le loro creazioni, sono essi stessi a provocare il reale, nella persona dei visitatori che guardano, riflettono, riportano nei loro ambienti, magari cambiano… viene rimessa in circolo una visione delle cose che lascia un segno visibile a tutti, affidato a chi vorrà raccoglierlo per ulteriori riflessioni e rielaborazioni e ciò secondo i modi propri di ciascun fotografo.

A questo proposito, è piaciuta molto la volontà dichiarata di accostare autori diversi per appartenenza culturale, formazione ed età; sorprende ed emoziona sempre constatare come, pur di fronte ad uno stesso tema (o a temi analoghi), l’esito della ricerca possa assumere forme diverse, perfino lontane e contrastanti. Con le celebri parole di Alda Merini: “Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo”.

E, in questa mostra, lo sguardo è volutamente portato a cogliere l’umano – altro motivo di affinità con questo nostro luogo; la centralità è infatti data all’uomo, da cui il riferimento, nel titolo della mostra stessa, alla storica esposizione “The Family of Man” di New York del 1955, di cui, nel citato catalogo, sono ripercorse le vicende. Ma, a differenza di quella, non solo il tempo presente impone la considerazione di una pluralità di “famiglie” – modi diversi di declinare l’appartenenza alla “nostra comune umanità” (Bruno Bettleheim) –  da cui il titolo dato a questa mostra, che volge al plurale il primo elemento, The Families…; ma anche, a differenza di quella, qui la vicenda umana è colta nel suo intreccio con il divenire della società, con le trasformazioni che hanno investito ogni scenario in cui l’umano si muove.

La mostra è organizzata incrociando due dimensioni, quella cronologica e quella tematica. La prima, ripercorre gli ultimi trent’anni della nostra storia, articolati in tre periodi, ciascuno avente a data simbolica di inizio quella in cui un fatto particolarmente forte si è posto come spartiacque, stabilendo un prima e un dopo. La narrazione comincia dunque dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino e chiude il periodo iniziale al 2000; l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 segna il secondo periodo, che si conclude nel 2019; lo scoppio della pandemia, il 2020, apre il terzo periodo, dedicato al presente e aperto alla ripartenza.

La dimensione tematica colloca i diversi aspetti della società (alcuni richiamati più sopra) nel periodo in cui maggiormente significativa è stata la loro manifestazione; ad esempio il Made in Italy, che negli anni ’90 primeggia a livello mondiale nella moda e nel design; o la questione ambientale, che nel primo ventennio del 2000 viene affrontata con sguardo più realistico e consapevole sulle condizioni altamente critiche in cui versa il nostro pianeta e sulle responsabilità che l’uomo deve assumersi in termini di cura della Terra, vista l’incidenza dei suoi comportamenti nel prodursi di quelle condizioni.

La mostra, raccogliendo alcune opere di soli fotografi italiani, ha inteso far emergere le caratteristiche stilistiche ed espressive di un’area culturale; di un’area, cioè, definita non da confini geografici, ma dalle coordinate stilistiche ed espressive di una tradizione che si esprime in una «ricerca quasi istintiva dell’equilibrio interno all’immagine, una ricerca che evita nella maggior parte dei casi le radicalità, gli estremismi espressivi, gli eccessi di ogni genere, in nome di una “misura” (evidentemente di ascendenze classiche) che si dà non solo come paradigma di bellezza, ma come fondamento di senso […]».

Alcune note tecniche sull’arte della fotografia ci consentono di  accennare ad alcuni autori e temi, anche in libera associazione, secondo la vocazione di questo sito alla multidisciplinarietà e pluralità di voci e anche al modo di procedere per collegamenti ad altro, secondo quello che il discorso ci evoca.

  1. Vi è un diffuso modo di intendere la fotografia come documentazione, cioè come «restituzione del visibile» (= nel momento in cui fotografo, ad esempio, una manifestazione di piazza, documento quel fatto, cioè consegno quello che si mostra, = l’accadere di quel fatto viene traferito, viene reso, attraverso il mezzo fotografico, in un segno visibile in cui rimanga fissato). H. Schwarz, storico dell’arte, teorizza che fotografare significa invece trasformare la realtà e non soltanto renderla visivamente; trasformare, compiere cioè un’elaborazione intellettuale, nella misura in cui l’autore si pone davanti alla molteplicità del reale che gli si mostra, selezionando qualcosa secondo una sua particolare prospettiva, dando cioè un’originale «organizzazione razionale ed emotiva» a quel frammento di realtà che egli ha isolato in uno scatto; nella fotografia c’è, dunque, una componente ineliminabile di → soggettività; nel momento in cui questa è agita nel modo detto sopra, viene istituita contemporaneamente una distinzione fra la realtà stessa e la sua rappresentazione → Foucault, Questo non  è una pipa. Centrale la questione della natura delle immagini e della percezione visiva, sulla quale hanno riflettuto in molti nel corso dei secoli; in questo contesto, uno dei riferimenti più prossimi è  → W. Benjamin, dal cui testo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica parte la riflessione di J. Berger, che sulla questione ha dato contributi fondamentali. Tutto il discorso ha fatto scattare in chi scrive il rimando al rigo musicale. Se prendiamo, ad esempio, un Minuetto da una sonata per flauto di Bach, vediamo che, dal punto di vista della linea melodica, anche un esecutore “acerbo” sarebbe in grado di digitare sul proprio strumento, in modo corretto, la successione di note che compone quella melodia; molto improbabile, però, che ne verrebbe fuori Bach; lo stesso Minuetto, affrontato dal musicista maturo, non è più quella successione di note soltanto (il regista teatrale Peter Sellars, che con le vette bachiane si è misurato più volte nelle sue messe in scena, in una recente intervista ha affermato che “è proprio dove finiscono le linee divisorie delle battute sulla partitura che comincia la musica di Bach”): come accade che, digitando le note scritte, si finisca col suonare ciò che non è scritto e, quello, diventi  (o sia?!)Bach? → Psicologia della Gestalt (“forma”, “configurazione”, “organizzazione formale”); nel suo lavoro pionieristico del 1890, Sulle qualità formali, il filosofo C. von Ehrenfels discusse il problema della percezione delle melodie musicali (e delle figure geometriche); nella storia della psicologia, questo “dette il la” (!!!) a ricerche successive e alla fondazione di una delle grandi scuole novecentesche, la Psicologia della Gestalt. Dunque, secondo Ehrenfels una melodia non è solo il risultato di un accostamento di suoni, ma una configurazione, cioè un sistema di rapporti  fra quei suoni, intesi come singoli stimoli sensoriali, ai quali la nostra mente, con un suo atto a priori, conferisce appunto una “organizzazione formale”. C’è dunque, nel “fatto musicale”, un qualcosa di non riducibile alla pura successione di qualità sensibili della musica (l’”altezza” dei suoni, il “ritmo”) e, ancor più, alla sua rappresentazione grafica (i segni che si rincorrono sul rigo musicale). Un gran salto in avanti nel tempo e da una diversa angolatura, ancora una riflessione sull’ineffabile «mistero che trasforma la musica in emozioni»: titolo, questo, del recente libro di →  Franco Mussida, andato pure lui in mostra, in quanto oltre a essere musicista – e fra le varie altre cose –  è anche artista (la mostra si è svolta dal 17 ottobre al 6 dicembre del 2020, stesso anno di uscita del libro, di cui ha ripreso il titolo).
  2. La fotografia come meccanica restituzione del visibile, pare essere uno dei prodotti della società contemporanea, le cui caratteristiche sono state individuate da → Bauman e da lui ricapitolate nella teorizzazione di una “società liquida”. Nello scenario attuale, paragonabile (e paragonato) ad una sottile lastra di ghiaccio, che solo la velocità della pattinata consente di attraversare per trovare salvezza (cfr. la citazione di Ralph W. Emerson in apertura del libro di Bauman, Vita liquida), non c’è una buona ragione per trattenere e conservare alcunché: cose, affetti, competenze, identità. Semplicemente perché non c’è il tempo di «concretizzare i propri risultati in beni duraturi», dato che l’imperativo autoritario della società dei consumi è quello di eliminare incessantemente quello che già si ha e si è, per sostituirlo con le versioni correnti, premurosamente trasmesse dai consigli per gli acquisti…Nella società liquida, in cui non sono ammesse soste, non riuscire a tenere il passo è l’anticamera della pattumiera, che preferiamo pensare destinata ad altri e non a noi. Ed è per salvarci proprio dal divenire scarti da gettare che attraversiamo in forsennata corsa la precarietà della vita moderna, inquieti all’idea di non “essere sul pezzo”. Non può trovarsi estranea alla dimensione liquida della contemporaneità la fotografia, se intesa come mera restituzione del visibile; poiché anche le immagini partecipano delle categorie di quantità e velocità, imponendo alla percezione visiva di cogliere solo gli elementi più immediati ed evidenti e riducendo la condivisione al tam-tam di segnalazione dei “più visti”. Ma, come è stato riferito più sopra, altra è la dignità dell’arte fotografica e perché possa essere svolta una «elaborazione intellettuale» – e non solo una restituzione – del visibile, occorrono l’agio e i tempi lunghi della ruminatio; chi se li concede, contribuisce forse a disinnescare la logica dello scivolare velocemente sui pattini, per tornare a camminare…e il → cammino, nel senso di un andare verso differenti altrove, è il tema del Festival dell’Antropologia contemporanea, Dialoghi sull’Uomo, a cui dedichiamo un discorso in quest’altra finestra.
  3. Dicevamo in apertura che “The Families of Man” richiama la mostra-evento newyorkese del 1955; nei decenni che le separano, la fotografia ha corrisposto alla rapida trasformazione della società costituendosi essa stessa come «linguaggio in continua metamorfosi e ridefinizione», nel quale è possibile riconoscere la complessità dell’→ Antropocene. Intendiamo con questo termine il periodo geologico nel quale, secondo la convinzione condivisa dalla maggior parte degli scienziati, ci troviamo attualmente; esso è caratterizzato dai massicci cambiamenti ambientali provocati – in larga parte – da comportamenti umani poco o punto interessati alle conseguenze sul contesto e sull’umanità. S. Foer, nel suo ultimo libro, Possiamo salvare il mondo prima di cena, definisce «estremi» alcuni di quei comportamenti, responsabili in modo significativo  dell’emergenza ambientale in corso: scelte alimentari (alle quali si collega la sciagura della deforestazione, motivata per l’80% dalla necessità di ottenere foraggio e pascoli per il bestiame – ma per l’area amazzonica la percentuale sale al 91%; la deforestazione, a sua volta, impatta in modo drammatico la presenza dei gas serra), metodi di allevamento, crescita demografica… Interessante la prospettiva da cui l’antropologo Francesco Remotti, nel recente saggio (a “sei mani” con M. Aime e A. Favole) Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione guarda ai fenomeni che si raccolgono sotto il termine Antropocene: essi sono frutto ed espressione di una cultura, la nostra, che nel corso del tempo ha assunto proporzioni enormi; tanto vasta, ricca, complessa e inarrestabile da risultare ingombrante a se stessa; nessuno spazio lasciato vuoto dove poterla accantonare per un po’, così da realizzare una salutare «autosospensione»: l’epoché culturale, nella felice espressione dell’autore che compendia il riferimento filosofico del termine (“sospensione”, “interruzione” del giudizio, nello specifico ambito filosofico) e il distanziamento, consapevole e programmato, di una data società da ciò che costituisce la sua cultura. Con l’autosospensione è come se quella società tutta intera togliesse il paio di lenti con cui è abituata a guardare il mondo (cioè, la cultura stessa: è attraverso l’insieme di principi, valori, modelli distillati dalla società che si elaborano e consolidano le categorie del reale dentro le quali ci muoviamo e dal quale discende ogni comportamento, che risulta pertanto «appreso socialmente»), con ciò riuscendo a vedere quello che prima rimaneva in ombra.  Se la nostra cultura si trova incapace di autosospendersi, è perché ha costruito il mito del «progresso infinito» e ne ha fatto il suo elemento distintivo anche in rapporto alle altre culture; di fatto, questa nostra cultura non vuole arrestarsi…

Tutto questo lo ritroveremo, ma ora, in appendice, segnaliamo che la leggendaria mostra newyorkese The Family of Man, dopo aver girato il mondo accolta da più di 160 musei e visitata da oltre 10 milioni di persone, si trova allestita dal 1994 in modo permanente, nella sua ultima “veste” completa, presso il castello di Clervaux in Lussemburgo. Questa fu infatti la volontà di Edward Steichen, il pittore e fotografo che, in veste di direttore di fotografia al MoMa (Museum of Modern Art) di New York, vi realizzò l’originaria esposizione del ’55. Nato in Lussemburgo ed emigrato piccolissimo negli Stati Uniti con la sua famiglia, tornò in visita nel suo Paese natale negli anni ’60 e, in questa occasione, espresse il desiderio che, a conclusione del suo tour internazionale, la mostra trovasse stabile dimora a Clervaux. Dato lo straordinario significato assunto nella storia della fotografia, nel 2003 la mostra venne iscritta al registro UNESCO Memory of the World.

Al link riportato sotto, oltre ai rimandi interni a sezioni varie del sito, ad esempio per le informazioni utili ad organizzare la visita, si trova una prima presentazione della mostra stessa.

https://steichencollections-cna.lu/fra/collections/1_the-family-of-man

Quest’altro link, invece, apre ad una piattaforma educativa che accompagna i visitatori anche più giovani, mettendo a disposizione attività e risorse varie, per vivere l’esperienza della mostra nel modo più coinvolgente possibile.

https://www.thefamilyofman.education/

Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo! Grazie.

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Hai bisogno di aiuto?

Serena Vettori, Umane Scienze

Sono Serena Vettori e per qualunque dubbio e domanda su UmaneScienze o se hai necessità di assistenza, compila il modulo, ti risponderò al più presto.